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Il binario 21 diventa luogo di accoglienza

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A Milano, il binario 21 della Stazione Centrale è legato alla vergogna della deportazione nazifascista. Nei sotterranei, ora trasformati nel Memoriale della Shoah, ci sono le rotaie da cui partivano i treni merci carichi di centinaia di ebrei destinati alle camere a gas. Si salvarono in pochissimi, tra cui Liliana Segre, partita tredicenne nel 1944 per Auschwitz e poi tornata senza famiglia. Fu lei nel 1997, insieme alla Comunità di Sant’Egidio e alla Comunità ebraica, a ritrovare il luogo tra i capannoni abbandonati della Stazione. In questo stesso posto dorme su una brandina il quindicenne eritreo Merawi; nelle tasche dei pantaloni ha il biglietto del treno per la Germania. Il sudanese Abu è più grande, ha 20 anni: «Guarda cosa succede in Libia», mi dice mostrandomi la ferita di un proiettile sulla gamba. Vicino ai due giovani, tenta di prendere sonno anche la siriana Asma, 78 anni, insieme alla figlia che lavorava all’università e parla cinque lingue. «Fuggiamo da Homs, la città è bombardata». Eritrei, siriani, iracheni, sudanesi, etiopi, palestinesi e anche altre nazionalità. Sono i profughi – oltre 1.500 dal 22 giugno – ospitati dalla Comunità di Sant’Egidio insieme alla Fondazione Memoriale della Shoah.

Nei sotterranei del binario 21 possono mangiare, lavarsi, dormire qualche notte in attesa di ripartire verso il Nord Europa, dove tutti progettano di andare. Il centro è inserito nella rete di accoglienza di Milano (74mila in 22 mesi), ma grazie alla solidarietà di tanti è all’insegna della gratuità e non ha alcun costo per le istituzioni pubbliche. C’è chi dona il proprio tempo, chi regala il latte per il mattino, chi offre il proprio telefono per chiamare la famiglia. Prima di addormentarsi, Merawi, arrivato sei giorni fa a Brindisi, bacia il cellulare mentre avvisa la mamma in Eritrea che è ancora vivo nonostante il viaggio nel Mediterraneo. Finita la telefonata, chiede a un volontario se conosce i nomi dei cadaveri sbarcati a Ferragosto, asfissiati nella stiva di un barcone al largo della Libia: la madre gli ha chiesto di controllare se ci sia il cugino, anche lui quindicenne. La solidarietà attorno al Memoriale della Shoah unisce una curiosa mescolanza di uomini e donne di tradizioni religiose diverse. La cena viene preparata a turno dagli anglicani della città, da alcune parrocchie milanesi, dagli ebrei Lubavitch della cucina solidale Betavon e dai buddisti del tempio di via dell’Assunta a Corvetto. Volontari cristiani, ebrei e islamici si alternano per aiutare i profughi, mentre la notte dorme con loro Adil, marocchino e musulmano.

Spiega Giorgio Del Zanna della Comunità di Sant’Egidio: «C’è un’aspirazione profonda che unisce le differenti tradizioni religiose: prendersi cura dei poveri della nostra città”. Continua: «La gente ha voglia di aiutare perché, se è vero che l’ostilità è contagiosa, la solidarietà lo è altrettanto. Lo vediamo a Milano e nelle altre città in cui aiutiamo i profughi. L’accoglienza al binario 21 di oggi è la rivincita verso il silenzio complice degli anni della Shoah». Quando è stato aperto il Memoriale, Liliana Segre ha voluto che la parola “indifferenza” fosse scritta a caratteri cubitali all’ingresso. Un monito per l’indifferenza dei milanesi di allora di fronte a quanto accadeva «sotto i loro occhi», ma anche quella della Svizzera, dove nel 1943 suo padre organizzò la fuga pagando i contrabbandieri. Passata la frontiera, trovarono un poliziotto elvetico che sentenziò: «Non potete entrare…la barca è piena». «Mi buttai ai suoi piedi – ricorda sempre Liliana – supplicandolo tra i singhiozzi di non rimandarci in Italia». Non ci fu nulla da fare, furono portati al carcere di San Vittore e poi ad Auschwitz, dove fu sterminata la sua famiglia.

Nelle sere inoltrate del Memoriale, quando la maggior parte degli ospiti si è addormentata, Adil chiede se qualcuno è ancora sveglio e vuole raccontare la sua storia. Lui le trascrive a mano, in arabo. Capita di ascoltare famiglie irachene di Erbil colpite dalla violenza dell’Isis, siriani in fuga dal quinto anno di guerra, adolescenti eritrei che scappano dal servizio militare obbligatorio a vita, sudanesi ed etiopi che sognano un futuro diverso. Addouma, sudanese di 21 anni, dice: «Ho preso questa decisione sapendo che poteva essere la mia fine o la mia occasione di cambiamento, il pensiero di provare non mi mollava mai». Ha pagato 2.500 dollari un trafficante per arrivare da Alessandria d’Egitto sulle coste italiane. «Prima di salire sulla barca, ci hanno picchiato come bestiame e insultato. La metà delle persone è scappata per la paura, perché la maggior parte di noi non aveva mai visto il mare. Passati sette giorni in acqua, ci hanno spostato su un’altra barca più grande dove c’erano già altre persone; dopo tre giorni abbiamo perso tutto il cibo e l’acqua dolce, mentre iniziavamo a imbarcare acqua. Una donna è morta per la sete, l’ho toccata ed era caldissima per la febbre. Il corpo è rimasto con noi per quattro giorni mentre andavamo alla deriva, finché una nave della Marina italiana ci ha salvato».

Muhsin invece non aspetta l’invito di Adil, parla inglese e ha molta voglia di raccontare la sua storia a persone amiche. Ha solo 16 anni e arriva da Aleppo, la città più popolosa della Siria. Insieme guardiamo una foto del suk di adesso e di prima della guerra. «Da qualche giorno manca ancora l’acqua», dice mostrandomi un messaggio spedito da un suo amico rimasto nella città sotto assedio dal luglio 2012. I bollettini internazionali lo confermano: Aleppo è nuovamente senz’acqua potabile, con temperature tra i 40 e i 50 gradi. Intanto, il 9 agosto colpi di mortaio nel centro e in una scuola della periferia che ospita i profughi hanno fatto 30 morti. Attualmente il 60% della città è controllato dalle forze governative, mentre il resto è conteso da vari gruppi in guerra tra di loro, compresi l’Isis e Jabhat al-Nusra. «Due anni fa – dice Muhsin – siamo scappati in Egitto con la mia famiglia. Sei mesi fa mio papà ha preso il barcone per arrivare in Svezia, dove ora ha ottenuto i documenti. Eravamo d’accordo che andasse prima lui per vedere la situazione e per permettermi di finire la scuola». Con l’estate è arrivato il turno del sedicenne, mentre la madre e la sorella sono per ora rimaste al Cairo. L’unica via possibile era quella illegale, non c’erano alterative ai trafficanti: Muhsin mi mostra le foto che ha scattato sulla barca, mentre vicino al Memoriale della Shoah mangiamo un gelato alla ricerca di un po’ di normalità. La mattina successiva si parte con un treno diretto verso nord. Tre giorni dopo mi manda via WhatsApp una sua foto dalla capitale danese Copenaghen. Passano 48 ore e arriva una nuova foto dalla svedese Göteborg. L’adolescente è sorridente, insieme a una zia. «Tutto bene – mi scrive – sono con mio papà!».

Poi però aggiunge: «Un po’ mi manca la mamma, spero arrivi presto».


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